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Ci credevo sai.
Ci credevo come si crede
a una mattina di marzo
quando l’aria sa ancora di inverno
ma già ti lascia respirare.
Entrai con la speranza in tasca
e la voce di un comizio in testa
uno vale uno,
mai con Berlusconi,
mai con la casta,
mai più servi.
Gridavamo tutti insieme
e per la prima volta
mi sembrò che il futuro
fosse una cosa che si poteva toccare
con le mani nude.
Ho passato notti a scrivere post,
a difendere l’indifendibile
perché era “nostro”,
ho imparato a memoria
le direttive di Casaleggio,
ho pianto quando entrammo in Parlamento
come si piange a un matrimonio
che ancora non sai
se finirà in divorzio.
Poi è arrivato il primo sì
a quello che dicevamo no.
Poi il secondo.
Poi il contratto con la Lega,
poi il governo con Draghi,
poi il sostegno all’Ucraina
con le stesse mani
che avevano giurato
“mai più armi”.
Uno vale uno
è diventato
uno comanda,
e gli altri applaudono
o tacciono.
Ho visto gente che insultava
i “poteri forti”
farsi selfie con i poteri forti
in giacca e cravatta.
Ho visto il reddito di cittadinanza
diventare merce di scambio
per una poltrona in più.
Ho visto Grill©
ridere nelle ville
mentre noi
continuavamo a credere
che fosse solo un momento difficile.
Un giorno ho aperto Rousseau
e non c’era più niente da votare.
Un altro giorno ho aperto il cuore
e non c’era più niente da difendere.
Adesso cammino per strada
e quando incontro
qualcuno con la sciarpa a cinque stelle
abbasso lo sguardo,
non per vergogna loro,
ma per dolore mio.
Non sono diventata cinica.
Sono solo diventata vedova
di un sogno
che si è suicidato
travestito da pragmatismo.
Rimane una frase
che ripeto piano,
come una preghiera laica
per chi ancora ci spera:
Non era una bugia
quello che abbiamo sognato.
Era una bugia
quello che è diventato.
E fa più male così.
Ex